Dal mani-comio a uomo derby

Roberto Beccantini2 novembre 2019

I confini, subito: le parate di Sirigu (su Dybala, Bonucci, De Ligt [!], Cristiano, Higuain, Ramsey contro una di Szczesny, una sola, su Ansaldi) e l’ingresso del Pipita. In mezzo, un Toro in crisi che doveva rialzarsi (e sul piano della lotta, nessuna obiezione) e una Juventus che cerca di imparare la grammatica di Sarri con la paura che le scappi un «vadi» nel compito d’italiano.

L’ha deciso De Ligt, il derby. E questa è una notizia. Proprio lui, il più assiduo paziente del mani-comio, protagonista anche stavolta. Aperta parentesi: domanda per Rizzoli, che differenza c’è fra il braccio di Lecce e il braccio di Torino? Chiusa parentesi. Higuain ha avvicendato un Dybala vivace ma periferico, Belotti aveva fin lì tenuto in piedi il Toro. Più corner per i granata, più possesso (e più tiri) per i campioni. Ma proprio su angolo, dal momento che il calcio è metà arte e metà riffa, la Juventus è passata: con la parabola di Pjanic, la sponda di Gonzalo e la girata del batavo di anni 20 e milioni 75.

Mazzarri aveva dato la carica, petto in fuori e 3-5-1-1, con Verdi, calato alla distanza, dietro il Gallo. Rientravano Pjanic, De Ligt e De Sciglio, decollo da incubo e rotta meno turbolenta. A un certo punto, nel primo tempo, ho colto Cristiano (così così) far segno di avanzare: possibile? Mi è tornato in mente Platini, quando invitava il Trap a uscire dalle barricate. «Certo, Michel, non appena ci porti il pallone».

Fra i cambi, ho trovato azzeccato anche Ramsey al posto di un Bernardeschi che, come trequartista, fatica a orientarsi. Il Toro continua a perdere ma se non altro ha ritrovato l’anima antica. La Juventus continua a vincere di misura, come una formichina con più elmetto che righello. Non chiude le partite, soffre, crea, spreca. Sporca, se serve; in smoking, quando può. Però 11 vittorie e 3 pareggi, Champions compresa. Il calcio gli è semplice, davvero.

Un risultato che nessuno meritava

Roberto Beccantini30 ottobre 2019

Chissà come sarebbe finita se Giua, arbitro alle prime armi, non avesse inflitto il secondo giallo, esageratissimo, a Cassata. Era appena il 51’, il Genoa stava giocando bene: meglio della Juventus, addirittura. E ha continuato a giocare fino all’ultima goccia di benzina. Complimenti a Thiago Motta: d’accordo, il pareggio di Kouamé era stato un gollonzo (destro sul tacco sinistro, Buffon spiazzato), ma il palleggio della squadra (Schone, Agudelo) è stato di eccellente qualità: e si giocava allo Stadium.

Troppo tardivo, per la resistenza del Grifo, il rosso a Rabiot (88’). E’ poi successo di tutto, protagonista fin lì il peggiore: Cristiano. Gol annullato per fuorigioco, rigore procurato e trasformato. Il tocco di Sanabria c’era. Non da killer, se mai da difensore acerbo, lui che è una punta.

La Juventus di Sarri, mamma mia, è stata di una lentezza esasperante. Pressava in maniera randagia, palla sui piedi o niente. E ancora una volta, appena passata in vantaggio (con Bonucci, di testa, complice il portiere), si è fatta beccare: come con l’Inter, come con il Bologna, come a Lecce.

Sotto la pioggia, ballava specialmente Dybala: il migliore. Capace di mangiarsi persino mezza difesa, ma non di fregare Radu. Fra cali di tensione, debutti tribolati (Rugani) e assenze preziose (Pjanic, Higuain), Madama non ha quasi mai sfornato manovre decenti. Un disastro, Bernardeschi trequartista (fino ai lampi balistici della ripresa, con i rivali in dieci); giù di corda Matuidi e Khedira, pasticcioni Cuadrado e Alex Sandro, una noia geometrica Bentancur. Insomma: una Juventus anonima.

Gli ingressi di Ramsey e Douglas Costa non hanno offerto sfoghi, in quella giungla di petti e di Romeri. Resta un risultato che nessuno meritava.

Liscio e lusso

Roberto Beccantini26 ottobre 2019

Faceva caldo, a Lecce: anche per il Lecce, mi dicono. La Juventus gli ha lasciato i primi cinque minuti e un tiro di Majer, e poi se l’è caricato in spalla, come uno zaino. Senza Cristiano, i «sarristi» hanno cominciato a passarsi la palla e chiudere gli avversari- timidi, quando non irruenti – nella loro metà campo.

Se contro i moscoviti, fino ai due minuti dell’Omarino, le occasioni erano state zero, questa volta sono state tante, almeno fino all’ora di gioco: una sventata, alla grandissima, da Gabriel su Dybala, le altre sbagliate per eccesso di pigrizia o faciloneria, compreso il palo di Bernardeschi a porta vuota. Fra parentesi, si è infortunato il radar: Pjanic. Basterà Bentancur?

Il Lecce di Liverani, in casa, aveva sempre perso. Chapeau, dunque. Ha fatto la sua partita: catenaccio e contropiede (alcuni non banali, visti i tuffi di Szczesny). Se il Lecce ha dato la vita, la Juventus no: nella mira, in particolare. Dybala, più ancora di Higuain, ha indovinato i movimenti e i servizi. Tutto, tranne la porta. Non è poco.

Gira e rigira, la Juventus continua a segnare poco, Cristiano o non Cristiano, e a prendere gol. Sui rigori che, trasformati da Dybala e Mancosu, hanno decorato il tabellino ci sarebbe da scrivere un romanzo. Quando ero ragazzo, l’arbitro non se li sarebbe nemmeno filati: e manco io, dalla curva. In tempi di Var e mani-comio, viceversa, Valeri ne ha dati due – Petriccione su Pjanic, appena dentro; braccio di De Ligt – e stava per dare pure quello su Emre Can, toccato da Tachtsidis. Una volta, il calcio era sport di contatto anche in area (per Rocchi, non più: penso a Palomino-Immobile).

E il povero De Ligt-comio? Braccio contro l’Inter (rigore), piede-braccio contro il Bologna (niente), braccio a Lecce (rigore). Come disse il pilota del tram all’automobilista che l’aveva tamponato due volte: dutur, ch’el cambia lu la strada, perché mi podi no.